La montagna è lì. Non ti puoi fidare, non la devi sottovalutare. E’ una questione di rispetto, vietato perdersi in romanticismi. Testa salda, con il gigante non si scherza. E’ il 1996, il 10 maggio 1996, il campo base è affollato da alpinisti e dilettanti. Gruppi eterogenei di persone, affidati alle competenze granitiche di Scott Fischer (Jake Gyllenhaal) e Robb Hall (Jason Clarke), tenteranno l’ascesa alla cima. In quella spedizione moriranno in otto.
Ispirato ad una storia vera e al reportage di Outside, curato dal sopravvissuto Jon Krakauer, Everest è un film che parla di limiti. Immaginari e reali, violati e superati. Sfidare il luogo più pericoloso sulla Terra per sfidare se stessi, cercare nell’impresa il senso ultimo della propria vita. Il nucleo del film di Baltasar Kormakur racconta la profonda insicurezza che in ognuno di noi ristagna, quel desiderio inafferrabile di sconfiggere il proprio confine, il limite appunto. Ma la montagna non perdona, anche la preparazione accurata, anche l’esperienza a volte non bastano, perché Lei, la montagna, è lì da sempre. A comandare. E l’essere umano scompare, le scivola accanto, precipita nel crepaccio profondo dell’inconsistenza, per comprendere la propria inadeguatezza soltanto alla fine, prima del balzo nel vuoto, prima della morte.
Everest non celebra, non vuole sorprendere, non corre il rischio di posizionarsi accanto ai prodotti da spettacolarizzazione immediata. Non c’è bisogno, ci pensano la montagna e la natura incontaminata a sorprendere con la loro presenza, senza accelerare la tensione narrativa. La vertigine è naturale. E l’arrampicata è metafora, racconta contesti sociali e ludici, attitudini e pulsioni. Su quella cima siamo saliti tutti quanti, nostro compito è capire perché l’abbiamo fatto. Un film classico, vicino ad alcune pellicole degli anni ’30 e caratterizzato da una riuscita galleria di personaggi e da una denuncia di fondo che prima attende, nascosta sotto strati di ghiaccio, e poi di improvviso, esplode. E a questo Kormakur tende, alla denuncia, alla condanna del turismo di facile consumo. Perché il prezzo da pagare è troppo alto, perché semplicemente non bisogna riuscire in tutto per essere degni di vivere. I limiti esistono, i confini non sempre sono liquidi. A volte sono di roccia e neve, ghiaccio. E basta.
voto
♥♥♥ / ♥♥♥♥♥
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