Prima c’era la decadenza. C’eravamo lasciati così, a Roma, nel presente impossibile della mondanità. Tra i tetti e le terrazze, nel virtuosismo dell’effimero chiacchiericcio. Ci ritroviamo, ora, Paolo, in questo albergo montano della Svizzera. Una decadenza traslata, in cui il presente non è contemporaneo, ma è una derivazione ovvia di un passato dimenticato e di un futuro impossibile. E’ sospensione. E il
chiacchiericcio si è trasformato nel dialogo umano. Parla all’essere con l’ovvia banalità della grandezza. Qui, su queste corde, si muove il tuo film. Michael Caine interpreta un anziano compositore, crepuscolare oserei dire. E’ in pensione, non dirige più, ma non ha dimenticato come si fa. Poi c’è la figlia abbandonata dal marito, la moglie a cui non porta fiori da dieci anni e un amico regista con cui parla soltanto di cose belle. E in questo hotel dall’amarezza intrinseca, corricchiano quei personaggi che appartengono all’universo tangibile dei tuoi film, Paolo. Sono
mondi decadenti, sono tutti figli della stessa incompatibilità di destini. Della stessa sospensione. Si chiama Youth, ma potrebbe avere altri mille titoli. Vero, la giovinezza c’è, è quella cosa che scappa. Scivola, si riscopre. Si nasconde sotto, rinchiusa nel baule dell’apatia. Rimane e pervade. Poi ritorna. Si chiama Youth ma avrebbe potuto avere altri mille titoli. Penso alla donna, alle madri e alla figlie, alle amanti, alla cameriere, a Miss Universo. Youth è anche un film sull’essere
donna, nel senso più alto del termine. Sensibilità. E nel senso lato, nel senso altro. Poi ci sono i silenzi, racconti lievi che suggeriscono una pugnalata nell’anima del ricordo. Difficile scriverne. Poi c’è la musica. Diretta e indiretta, diegetica o non diegetica. In Youth la musica è un personaggio, una sorella, un’antagonista. Difficile scriverne. Mi è sempre stato difficile. Poi ci sono gli eccessi, appartenenze a uno stile, convergenze e contaminazioni. Ci sono film che andrebbero visti tre volte, prima ancora di dire un semplice”ah”. Ci sono film in cui dopo l’ultimo quadro, l’ultimo frame, capisci che hai assistito a un’esperienza. Il cinema è finzione. Lo dice anche il personaggio di Keitel. Ed è la cosa che ci riesce meglio. E anche qui lo stratagemma della finzione ci inganna e ci sorprende.
Diverte, nell’istante. Guida alla riflessione, a distanza. Il profondo rispetto che tu regista hai per le tue creazioni, i tuoi personaggi. Li tratti da essere umani. Li tratti con verità, anche nella finzione. La profonda irriverenza che tu regista hai per le tue creazioni e per il mondo che ci circonda. Dopo tanti film tuoi, sembra inutile poi soffermarsi sulle immagini, sulla poeticità che infondi a qualunque ambiente. Non mi dilungo. Tanti ne scriveranno. In bene o in male Anche perché la Sorrentinite è diventata ormai uno sport. Chiudo così, ripensando al salto del respiro quando lo schermo è diventato nero. Penso all’uscita dalla sala, a quel momento in cui ci si rende conto di aver assistito a qualcosa di immenso. Forse è questa la grande bellezza. Questa è quell’immensità su cui, forse, sarebbe meglio non scrivere.
Voto
♥♥♥♥ / ♥♥♥♥♥
Ti faccio i complimenti per la recensione. Grazie alla tua condivisione su FB ho scoperto un altro blog che parla di cinema e di questo sono sempre molto contento!
Sono d’accordo su ogni punto da te citato.
La mia (breve) impressione sul film, non ho trovato tempo per scrivere un pezzo più lungo, la puoi trovare qui se ti interessa.
https://moviemaniacomment.wordpress.com/2015/05/21/speciale-cannes-2015-padiglione-italia/
Alla prossima! Ciao!
Andrea
Grazie per i tuoi complimenti!
Ho appena letto il tuo pezzo, e fatto un giro sul tuo blog! Tutto molto interessante… è bellissimo trovarsi qui, in rete, a chiacchierare! Evviva il cinema, evviva Youth
alessandro