La vera storia di Margaret Keane. Storia di una seduzione, di un imbroglio. Tra gli anni ’50 e gli anni ’80 le gallerie d’arte americane si riempiono di strani quadri che raffigurano trovatelli con occhi enormi. Un’arte (o presunta tale) che diventa una mania, la moda del momento, un fenomeno di massa.
E il merito se lo prese Walter Keane, il marito, che convinse Margaret a lasciargli la paternità delle opere perché all’epoca, sosteneva lui, l’arte femminile non era presa in considerazione. E’ la storia di un ricatto, di un vincolo implicito siglato con l’arma innocua della seduzione, del lento e inevitabile corso degli eventi. Fino al ribaltamento liberatorio, a colpi di pennello e pratiche legali.
E in questa menzogna si cela Tim Burton. A prima vista Big Eyes potrebbe sembrare un film classico, da vecchia Hollywood, così facilmente canonico da risultare semplice e semplicistico. Ma come Walter Keane, anche Burton si sottrae. Si nasconde sotto la spatola e cela il proprio nome. Big Eyes è la sintesi di un cinema d’autore in cui in pochi attimi l’autorialità emerge, forte e incisiva. E nella menzogna di questo cinema, la teatralità classica della vicenda sembra avere il sopravvento sulla mano registica di Burton. Invece, Big Eyes ne è la sintesi, l’estrema e definitiva summa di un percorso che va dal colore di Edward mani di forbice all’impeto narrativo di Big Fish. Una mano così riconoscibile da permettersi di confondere e pervadere in silenzio l’intero film, in ogni grande sguardo. E sotto l’apparenza, sotto gli strati da grattare via, rimangono le emozioni, le forme della diversità e i caratteri irregolari che da sempre contraddistinguono il suo cinema, le ossessioni a cui non può rinunciare. Nell’omaggiare un’artista che ama, Burton realizza il suo film più personale, naturale controcampo riflessivo della propria carriera.
voto
♥♥½ / ♥♥♥♥♥
Un pensiero su “BIG EYES”