Abbandonare la Terra di Mezzo. Riprende dove si era interrotto, quest’ultimo viaggio. Una lacrima può scivolare, è inevitabile.Andata e ritorno. Ultimo, così sembra. Si chiude la seconda trilogia, successiva cinematograficamente, precedente se si ragiona sulla produzione narrativa di Tolkien. Così, per chiarire ogni dubbio e rinfrescare la memoria ai critici autorevoli. Smaug ha abbandonato la montagna. Il desiderio spietato di distruzione gli appartiene e si scatena sugli abitanti di Pontelagolungo. Thorin ora ha una corona e una città da difendere. Ai piedi della Montagna Solitaria, priva del suo guardiano di fuoco, si combatterà la battaglia definitiva. L’ultima.
L’anello si chiude, si compie un cerchio durato più di quindici anni. Si chiude con epicità, con tono rapsodico. Trionfale.
Si chiude nella spettacolarizzazione esasperata.
Inevitabile, il meccanismo narrativo si dilata e questo terzo capitolo racconta la battaglia, poco altro.
Orchi, nani, elfi, uomini e aquile.
Lo scontro delle legioni.
Lo scontro di razza, invece, è soffocato, le dinamiche d’appartenenza vengono sacrificate per scelte di carattere visivo. Sembra più importante rappresentare la battaglia, animarla visivamente e non descriverla. I mattatori di questo capitolo conclusivo (e in realtà di questa seconda trilogia) sono gli effetti digitali, i virtuosismi tecnologici che sovrastano il racconto e inscatolano la vicenda. La dilatazione non è soltanto narrativa, ma anche tecnica, con effetti digitali eccessivi. Lo scontro tra il Bianco Consiglio e i servi del
Negromante sembra il riflesso laser di Star Wars. Così come quello sul ponte tra Legolas e l’orco fa sorridere e un po’ innervosire, anche a causa di salti acrobatici mastodontici e video-ludici. Tuttavia, Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate ha il proprio apice proprio in un confronto, nel faccia a faccia catartico tra Azog e Thorin. Un solitario culmine narrativo fatto di passione e semplicità, purificazione.
Il viaggio attraverso La Terra di Mezzo è suggestivo e immaginifico. Peter Jackson è quei luoghi, li conosce. Li ha vissuti. Il pubblico li ama, li conosce e li riconosce. E la lacrima può scivolare, di nuovo. Eppure nella babilonia della spettacolarizzazione, ci si dimentica la filosofia di fondo per cui anche le cose più piccole, gli esseri più insignificanti, i minuscoli Bilbo Baggins, possano essere fondamentali.
voto: ♥♥½/♥♥♥♥♥