I remake non sempre fanno male.
Difficile superare l’opera che c’è alla fonte.
Alle volte si avvicinano, in prove di eguaglianza, giocando al confronto con chi prima c’è arrivato, cronologicamente e non solo.
Jim Sheridan si ispira ad un buon, buonissimo film della regista danese Susanne Bier, una che non ha mai avuto paura di confrontarsi con i colleghi maschi.
Jim Sheridan da lì parte. Anche lui è uno che il cinema lo mastica, da più di qualche anno.
La storia rimane più o meno la stessa.
Due fratelli. Uno più in gamba, l’altro più incasinato. Il primo, sposato con una splendida moglie e padre di due bimbe, parte per l’Afghanistan. Non torna. Dichiarato morto farà il suo ritorno dopo tanto tempo. L’altro nel frattempo si prende cura della famiglia del fratello, riscoprendosi.
Sheridan sposta l’azione dall’Europa del Nord all’America, del Nord pure questa. E in questa perduta cittadina del Minnesota (esclusa qualche incursione in Afghanistan) prende vita il triangolo della vicenda. Un triangolo complesso in cui il sesso bussa soltanto alla porta dei pensieri di chi è stato lontano. Il resto sono rapporti umani, l’equilibrio della vita, quello fragile, quella linea sottile in cui corrono silenziosi i lampi del confronto tra fratelli. Lui era quello buono, avrei dovuto morirci io in Afghanistan. Ma la realtà bussa di nuovo alla porta. Prima aveva l’aspetto da coppia di marines, poi quello di Sam che ritorna. C’è una seconda occasione. (Ri)abituarsi alla vita, dopo la morte. Rinunciare all’assenza e ricominciare ad assaporare una presenza che ingombrante, porta il peso della guerra, la ferita dell’anima, il coming home.
Del film della Bier rimane anche la frase “solo i morti hanno visto la fine della guerra”. A Sheridan il merito di aver creato e plasmato un’incredibile alchimia tra gli attori grazie alle intepretazioni intense di Natalie Portman, Tobey Maguire e Jake Gyllenhaal.
